Diego Gavini, Mafia, potere politico e narrazioni pubbliche. La lotta al crimine organizzato ai tempi della guerra fredda, Roma, UniversItalia, 2019 (Collana Ricerca Continua, 4)
Il libro racconta la complessa costruzione dell’antimafia nei primi decenni dell’Italia repubblicana (1948-1982), in un paese diviso dalla frattura ideologica all’ombra della guerra fredda. Al centro della ricostruzione vi sono le vicende della prima Commissione parlamentare antimafia (1962-1976), luogo principale di costruzione del contrasto al fenomeno mafioso. Ma lo sguardo si allarga ai tanti protagonisti – politici, magistrati, amministratori, uomini delle forze dell’ordine, sindacalisti, giornalisti – che hanno segnato i linguaggi e le pratiche concrete dell’attività antimafia. Quello a cui si assiste è infatti uno scenario in cui le narrazioni, le immagini e le mentalità diffuse hanno un ruolo decisivo sia nella costruzione di determinate politiche di contrasto, sia nella creazione di quei vuoti rapidamente riempiti dalle organizzazioni criminali.
Dentro a questi vuoti crescono le collusioni politiche – come nel caso Ciancimino -, ed esplode la violenza, dalla strage di Ciaculli al delitto Scaglione. Ma cambia anche la percezione del pericolo mafioso ed emergono quelle esperienze sempre più avanzate di contrasto, portate avanti da personalità come Cesare Terranova o Pio La Torre.
La narrazione si ferma al 1982, anno dei delitti La Torre e Dalla Chiesa, ma anche anno della promulgazione dell’articolo 416 bis del codice penale, frutto più maturo (e lungamente ostacolato) della prima strategia di contrasto alla criminalità organizzata. Da questo momento, nell’Italia che scivola verso la fine della prima Repubblica, il movimento antimafia subisce una evoluzione che porta all’emergere di istanze della società civile sempre più autonome rispetto al ruolo guida delle tradizionali forze politiche. Ma questa è appunto un’altra storia.